Offerta di correzioni disciplinari: il mio approccio (2) – rituali e procedure (1)

Rituali come binario di riferimento – Importanza degli aspetti formali – Sottolineare la differenza gerarchica – Uso e non abuso delle umiliazioni – Preparazione alla battitura

L’esistenza di un “binario”, un riferimento procedurale, consente di avere il miglior controllo possibile di una sessione correzionale. Questo vale tanto per l’educatore che per il corrigendo, che in una situazione indubbiamente imbarazzante è sorretto da pochi appigli: uno di questi è obbedire con precisione a ordini precisi.
Ogni mio allievo sa, anche al momento di presentarsi per la prima volta di fronte a me, alcune cose fondamentali da fare o non fare. Le istruzioni in merito gli sono state fornite nelle ultime email, quelle che precedono il primo incontro correzionale.
Il corrigendo deve tenere lo sguardo basso, rivolgersi a me solo se interpellato, usare

il Lei chiamandomi “Signore”. Ogni sua frase, sia pure un semplice “Sì”, dev’essere accompagnata da “Signore” (Sissignore; Nossignore; Subito, Signore; So di meritare la frusta, Signore; etc.).
Quest’uso non viene imposto improvvisamente, alla mia presenza fisica; voglio invece che sin dai primi scambi epistolari il somaro inizi a mostrare il giusto rispetto. Se non se la sente, lo trova ridicolo, non ne capisce le ragioni, significa semplicemente che l’individuo non fa per me e io per lui e viene scartato seduta stante dal novero dei potenziali allievi. Quanti ne “perdo”, per questo tipo di inottemperanza? Davvero pochi.

Una parola sulle email. Fino al primo incontro, esse sono l’unico biglietto di presentazione dell’aspirante allievo. Pretendo che esso scriva in italiano corretto, senza errori grammaticali o sintattici. Considero ogni errore un segno di disattenzione e quindi di scarso rispetto nei miei confronti. Poco importa che il maiale debba rileggere 10 o 20 volte quello che ha scritto, prima di spedirmelo. Al giorno d’oggi, la mancanza di forma è tollerata con benevolenza: tutti dicono di badare alla sostanza. Ma io offro un servizio “d’altri tempi” e probabilmente sono apprezzato anche per l’atmosfera che ne consegue; quindi sono attento alla forma e ai formalismi.
Sin dai primi contatti tratto gli aspiranti allievi nello stesso modo in cui saranno trattati nelle sessioni: ciò serve ad abituarli al tipo di rapporto che si possono aspettare di avere con me. In tal senso, li “educo” da subito. Del resto, uno che in prospettiva si umilierà a mostrarmi il buco del culo mentre porge le natiche in attesa della frusta non può essersi rivolto a me fino alla sera prima con un ‘ehi-bello-ciao-come-butta’, no?
In mia presenza, la regola generale è che il corrigendo non faccia alcunché non gli venga espressamente ordinato. Preferisco un sacco di patate (il che non differisce molto dall’idea che già ho di lui) a un “entusiasta” che per il desiderio di compiacermi si assuma iniziative di qualsiasi tipo, come ad esempio denudarsi o correre in mio soccorso se sto cercando un posacenere. Fermo, zitto e buono è la regola d’oro.
Tipica infrazione: calarsi anche le mutande quando ho ordinato semplicemente di calarsi i pantaloni.
Pensate io sfiori o sfondi il confine della paranoia? Avete completamente ragione.

Come ho detto in post precedenti, con il corrigendo uso massimo distacco e freddezza. Non saluto mai, non gli rivolgo la parola se non per impartire ordini. Non alzo quasi mai la voce, tenendo anzi un tono piuttosto basso. Se capita, è solo mentre sottolineo le sue mancanze o lo derido mentre lo umilio o lo batto. Ad esempio mi piace chiedergli in tono sarcastico e retorico se la frusta brucia, appena dopo un colpo che lo ha fatto saltare, urlare o piangere.
Le mie sessioni correzionali si svolgono secondo una procedura abbastanza consolidata. Dico “abbastanza” perché se l’esperienza mi ha aiutato a selezionare rituali molto precisi e consequenziali, la stessa mi ha anche dimostrato che gli imprevisti sono all’ordine del giorno e non tenerne conto significherebbe andare “fuori parte”. Le situazioni concrete richiedono flessibilità, l’essere pronti ad adeguarsi all’inatteso senza tradire il senso del proprio operato e senza bloccarsi su un copione che per qualche ragione non può essere rispettato alla lettera.
La procedura e ogni suo passo sono condotti in modo che il corrigendo sopporti in ogni istante tutto il peso della differenza gerarchica, che provi la tensione derivante dal dover obbedire immediatamente e bene ai miei ordini, che senta la propria forzata passività tanto da percepirsi come goffo, inadeguato, ridicolo.
Per prima cosa ricordo al somaro perché è stato convocato (o gli sto facendo visita).
Poi lo interrogo, per fagli confessare le specifiche colpe di cui intendo occuparmi quel giorno. Se dimentica qualche mancanza che invece ho registrato io, gliela ricordo, spesso con un paio di ceffoni. La confessione è una delle fasi più delicate e interessanti di una sessione correzionale. È delicata per il corrigendo, perché egli è costretto ad ammettere le proprie mancanze e inadeguatezze, delle quali spesso si vergogna davvero. D’altro canto, se le usa solo come pretesto per il teatrino punitivo, ho il modo di accorgermene e quindi di capire meglio chi ho di fronte e quali sono le ragioni per cui mi ha contattato.

Pertanto, durante la confessione pongo domande, sottolineo le parti che ritengo più vergognose, fingo stupore e incredulità di fronte al suo grado di abiezione (devo fingere, perché scandalizzarmi fa parte del mio ruolo di persona per bene e del tutto estranea al marciume che mi viene narrato, ma in realtà ormai ne ho sentite talmente tante che è raro per me restare davvero sorpreso). Ciò naturalmente ha lo scopo di far sentire l’allievo profondamente colpevole, socialmente esecrabile ed eticamente indifendibile. Non pensate che io sia inutilmente crudele: l’allievo vuole sentirsi esattamente così.

Dopo la sua confessione, sempre fingendo di non aver mai udito nulla di peggio in vita mia mi chiudo in qualche breve istante di riflessione, durante il quale soppeso le sue colpe e determino come fargliele espiare: se solo con una correzione corporale o anche con umiliazioni ad hoc. A volte già in questa sede pronuncio la sentenza (numero dei colpi e forme di umiliazione), a volte mi riservo di comunicarglielo in seguito, per lasciarlo a macerare meglio nell’incertezza.
Quando gli è stata chiarita la relazione causa-effetto tra ciò che ha commesso e quel che lo aspetta, gli intimo di denudarsi e lo pongo in castigo (cornertime ex ante). Il cornertime preliminare può avvenire in mia presenza, ovvero in un luogo separato, anche al buio. Dieci, quindici minuti sono la regola, ma in alcuni casi di mancanze particolarmente gravi posso lasciarlo a meditare anche per mezz’ora (mai al primo incontro, però; il primo incontro è psicologicamente il più delicato, per l’allievo, e lasciarlo a sé stesso troppo a lungo può essere controproducente). In genere, per il cornertime prevedo stia in ginocchio, le mani incrociate dietro la nuca, il naso a contatto con una parete. Quasi sempre gli infilo un plug anale, che deve ritenere per tutto il tempo dell’attesa. A volte, se sta scontando il cornertime in mia presenza, di tanto in tanto gli rammento di riflettere sulle sue colpe e di pensare a cosa lo attende.

Se la sessione avviene nel mio piccolo studio, sin dal momento in cui si è messo nudo il corrigendo è chiamato a indossare un cappello da somaro, con il cono (giallo) molto alto e due grandi orecchie pendenti (grigie). In questi casi, il plug anale è costituito da una coda, di quelle che si reperiscono facilmente in ogni sexshop.
Vi ho già detto che sono paranoico: in ginocchio, il corrigendo deve tenere i piedi puntati e sedersi sui talloni, in modo che il suo culo sporga per bene. Più è vergognosa la sua postura, meglio è.

Facciamo una pausa: a che serve, il cornertime? Per gli allievi novizi, a far capire loro quanto io stia facendo sul serio. In tutti i casi, a creare un distacco davvero abissale tra il loro status e il mio. Alcuni allievi mi hanno confessato che per loro il cornertime è quasi peggio della battitura, perché si sentono davvero nudi e ridicoli, completamente distaccati dalla loro abituale percezione di sé. Perfetto. Alcuni mi hanno poi rivelato che, in quei momenti, si chiedono persino come possano trovarsi in quella situazione. Magnifico.
Al termine del primo cornertime, se la sessione prevede umiliazioni specifiche, provvedo a queste. Bisogna fare attenzione, perché ciò che un allievo può percepire come umiliante per sé può risultare indifferente a un altro. Io cerco sempre di conoscere, intuire e immaginare cosa ogni somaro senta umiliante. Ci sono allievi che ricevono senza problemi un clistere, ma odiano essere condotti al guinzaglio. Altri che non fanno una piega nel dover espellere una candela bianca, che ovviamente esce marrone dai loro culi merdosi, mentre hanno grosse difficoltà nell’essere messi di fronte alla propria immagine in uno specchio.
L’attenzione che riservo alla umiliazioni va in due direzioni: da un lato cerco di fare in modo che siano pesanti, dall’altro che non siano eccessive. Ci sono linee invisibili che non devono essere superate, altrimenti il disagio del corrigendo gli diventa insopportabile e il suo piacere nell’essere degradato si trasforma in rifiuto per la situazione.
Terminata l’eventuale fase di umiliazioni, il corrigendo si deve posizionare per la battitura. Questa può avvenire con una certa varietà di strumenti e quindi di posizioni. Per la canna o il frustino da cavalli, lo voglio sempre a quattro zampe o in ginocchio. Per lo scudiscio, in piedi (legato mani sopra la testa) o a 90% col busto appoggiato a un tavolo. Per la paletta, accucciato.

In un futuro articolo spiegherò perché uso strumenti diversi in situazioni diverse, ma è chiaro sin d’ora che diverse posizioni e diversi strumenti possono avere effetti psicologici diversi sul corrigendo, e tale possibilità non va trascurata. Qui dico solo che in ogni sessione adopero un solo strumento (al massimo, sostituisco la canna con un’altra, se si rompe). Di regola, il mio bersaglio è sempre e solo il pieno delle natiche. Recentemente, e sempre solo in seguito a precisi accordi, mi è capitato anche di colpire le piante dei piedi (bastinado o falaka).

Devo aprire un’altra importante parentesi. Come compare sulla scena lo strumento di correzione corporale? Lo prendo io o lo faccio prendere al corrigendo? È indubbiamente più umiliante, vergognoso, indice di completa resa all’autorità se è il corrigendo a prendere e porgermi cerimoniosamente la frusta (il famoso fetch the cane!). D’altro canto, è un rituale che va bene per allievi già familiarizzati (e fidelizzati) con il mio approccio, nonché pratici dell’ambiente in cui vengono puniti. E – anche qui – l’educatore deve sempre stare attento a non tirare troppo la corda: serve ricordare che sulla scena siamo in due. Perciò nelle prime sessioni provvedo io a prendere lo strumento, facendo bene attenzione che il corrigendo abbia modo di vederlo, sentirlo fischiare in aria, intuirne il futuro impatto sul suo culo mentre lo saggio sul mio palmo. Per me si tratta di momenti di grande soddisfazione: quelli in cui l’attesa dell’allievo si trasforma in aspettativa. Me li gioco senza fretta (la fretta è peccato mortale, come ingollarsi un brandy raffinato in una sola sorsata), godendomi le espressioni del corrigendo mentre tenta di farsi forza.

Concludo qui la prima parte della descrizione. Mi sono sforzato di far presente che a ogni fase della sessione sono assegnate delle ragioni logico-procedurali, peraltro abbastanza ovvie, e che a ciascuna di queste corrispondono aspetti psicologici che l’educatore ha la possibilità (e anche il dovere) di calibrare, in parte rispetto agli accordi presi “in fase di conoscenza” con l’allievo e in parte a seconda di quel che gli suggeriscono la propria sensibilità e la percezione dell’andamento della sessione stessa. L’educatore è una specie di regista, cui spetta la responsabilità del successo o meno della sessione. Tale successo dipende dalle aspettative di entrambi gli attori/protagonisti, dai loro gusti e le loro idiosincrasie, per cui è necessario che chi ha il potere di decidere le azioni sappia interpretarli per entrambi. Ciò non ha a che vedere con la temuta dominazione dal basso, secondo cui il dom viene manipolato dal sub, ma richiede senz’altro una predisposizione alla flessibilità, che può essere tanto di carattere operativo che psicologico. È facile? Non ho mai detto che lo sia.

 

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