Offerta di correzioni disciplinari: il mio approccio (2) – rituali e procedure (3)

Legatura e bendatura del corrigendo – Regole – Ritmo e conteggio dei colpi – Battitura “silenziosa” o “dialogata”? – Conclusione della sessione

Siamo giunti alla terza e ultima parte della descrizione dei rituali e delle procedure che utilizzo in una sessione correzionale. Nell’articolo precedente ho descritto quali strumenti uso, e perché. Abbiamo quindi visto che picchio per punire e di conseguenza sono severo, ma che la mia severità viene parametrizzata sulla soglia del dolore del corrigendo, che varia da individuo a individuo. Ma ovviamente non è tutto qui: esistono molti particolari di contorno, che per alcuni allievi sono persino più importanti della punizione vera e propria.

Parlo subito di legatura e bendatura, perché sono argomenti delicati, che richiedono precisi accordi preliminari. Soprattutto con un allievo nuovo, con il quale la reciproca conoscenza non è ancora perfezionata, bisogna essere assai cauti nel proporle (senza mai imporre). Molti rifiutano l’una, l’altra o entrambe: non ho obiezioni di sorta, perché lo considero un pieno diritto “di prudenza”. Tutto sommato, nonostante la safeword, se qualcosa non gli torna possono sempre alzarsi e reagire. Invece, se legati, non possono farlo. Se bendati, sono comunque in posizione di netto svantaggio rispetto a uno sconosciuto (io).
Se invece desiderano essere legati e/o bendati, scopriranno che con me non rischiano niente ma – appunto – lo devono scoprire da soli, e secondo le modalità che scelgono loro, non quelle che potrebbe voler imporre il dom. Il mio consiglio generale, in tutti i contesti, è di non farsi mai legare o bendare finché non si è perfettamente sicuri dell’equilibrio mentale del proprio carnefice.

Ci sono poi allievi cui farsi bendare e legare non interessa, punto e basta. Anche a me non interessa, sotto il profilo iconografico, tranne in due casi: il judicial punishment, che richiede “per completezza” la legatura; la fustigazione in piedi, mani sopra la testa (“al palo”, per intenderci). Quindi la mia posizione filosofica è la seguente: se l’allievo me lo chiede, lo lego e/o lo bendo; se non me lo chiede, glielo propongo solo nei due contesti descritti, ma se rifiuta accetto senza problemi il suo no.
Finora non ho sperimentato frequentemente il
judicial punishment (cavalletto, bacchetta spessa di rigore o scudiscio o – raramente – frustino per cavalli) e le volte in cui l’ho fatto ho sempre legato l’allievo, ma si è anche sempre trattato di giovani che mi conoscevano già molto bene (almeno 4-5 sessioni già effettuate, e una piena e reciproca fiducia).

Devo aprire una parentesi. Un allievo, ogni allievo, ha il pieno diritto di essere timoroso, indeciso, di fare marcia indietro su tutto, di pentirsi, di dire grazie mi sono sbagliato. Ovviamente lo cancellerete dalla vostra agenda, ma dovete rispettare la sua scelta. Un educatore, invece, non può mai essere indeciso, titubante, scarsamente padrone della situazione.
Se un allievo, nonostante tutte le premure e gli accordi preliminari, dà segni di disagio e mostra di non farcela, l’educatore deve liberarlo immediatamente dal panico incipiente, agendo con velocità doppia del normale e fornendogli proprio l’impressione visiva di stare accorrendo in suo soccorso.
Quindi, per esempio, un allievo non va mai legato con nodi che non possano essere sciolti più che rapidamente, e assolutamente mai in modo che si debba fare ricorso a forbici o coltelli: vedere l’educatore che gli si approssima con qualcosa di puntuto o tagliente, sia pure col nobile scopo di liberarlo, non farebbe altro che gettare il corrigendo nel panico che si voleva evitare. Fine della parentesi (ma pensateci davvero, e a lungo).

E ora passiamo a qualcosa di meno drammatico: le regole fondamentali durante la battitura. Concedo al maiale un bel po’ di diritti (forse troppi, ma in realtà sono buono d’animo): può gridare, piangere, implorare quanto vuole, saltare. Può chiedermi di smettere, promettermi che in futuro si comporterà bene, dirmi che non ce la fa più, che il culo gli brucia come fuoco. Finché non pronuncia la safeword, tutto questo non solo mi è indifferente, ma anzi mi invoglia a picchiare più sodo.

I suoi doveri sono: 1) contare ogni colpo; 2) mantenere la postura; 3) non ripararsi per nessun motivo, né tentare di spostare il suo culo merdoso. Se viene meno a uno o più dei suoi doveri, deve aspettarsi un supplemento finale.
Questo può essere di 3, 6 o 9 colpi (a seconda del numero e della gravità delle sue infrazioni) se all’inizio avevo stabilito 31 colpi.
Diventa di 5, 9 o 12 colpi se all’inizio gliene avevo promessi 41. Un allievo particolarmente somaro e indisciplinato può quindi arrivare a prendersi 53 frustate.

Ritmo e conteggio dei colpi. In proposito, le scuole di pensiero sono molte, per cui dirò solo come mi regolo io. Un judicial punishment richiede una cadenza regolare dall’inizio alla fine, perché essa – per me – costituisce un rituale all’interno del rituale. Invece, in una correzione “scolastica” il ritmo va variato, perché il somaro non abbia riferimenti. Anche quando gli appoggio la bacchetta sul culo già gonfio per stuzzicarlo, e poi la sollevo, non deve mai poter essere certo che il prossimo colpo arriverà in un secondo piuttosto che in due, cinque, dieci.
A volte la faccio persino fischiare a vuoto, senza colpire. La non prevedibilità dei colpi è un potente strumento di sottomissione, e mostra all’allievo che state veramente pensando a quello che fate, cioè che vi state prendendo sul serio cura di lui.

Detto ciò, uso la regola “10 colpi lenti- 10 veloci – 11 lenti”. Quando invece di 31 sono 41, diventa 10-15-5 “liberi” (secondo estro)-11. “Lento” non significa che picchio piano, ma si riferisce all’intervallo tra i colpi, che è di circa 10 secondi.
Voglio che la pelle abbia il tempo di gonfiarsi e che il dolore penetri bene in profondità. È molto piacevole vedere come un segno rosso di bacchetta assuma progressivamente rilievo, si definisca e si stagli rispetto agli altri. Poiché un culo, col progredire della battitura, perde sensibilità, gli ultimi 11 colpi sono più vigorosi, gli ultimi 5 li calo con la massima forza, e per l’ultimo prendo la rincorsa. Sempre che il corrigendo non sia “di quelli delicati”, nel qual caso mi regolo sul suo grado di sopportazione.

Conteggio. Le mie regole e preferenze sono: il segaiolo deve contare ogni colpo a voce alta, dopo averlo ricevuto (“Uno, Signore”…, “Due, Signore”…). Questo perché mi piace sentire la sua voce incrinarsi progressivamente, col procedere della battitura. Soprattutto coloro che hanno una bassa tolleranza al dolore risultano molto divertenti, nel contare, perché si percepisce il loro sforzo di soffocare i lamenti per ottemperare alla regola. Alcune scuole di pensiero sostengono che – contando – il corrigendo perda di vista la battitura, concentrandosi invece su ciò che deve dire. Può darsi, ma a me francamente non risulta.

Il conteggio fa parte della componente “verbale” della correzione corporale. Anche qui, è una questione di preferenze: chi – allievo o educatore – preferisce che i colpi e i lamenti si levino nel silenzio assoluto, e chi invece (come me) coglie l’occasione del momento per impartire ulteriori umiliazioni. Certo, non tengo conferenze, ma chiedere sarcasticamente all’allievo “se brucia”, sapendo che è obbligato a rispondere, fa parte della mia tecnica. Così come ricordargli che è uno schifoso segaiolo, e pretendere che lo ammetta e lo ripeta. Visto poi che un allievo è per definizione un somaro, perché non sentire come raglia? (un piccolo aneddoto: una volta ho ordinato a un corrigendo di ragliare, ma lui non conosceva il termine, così non capiva cosa gli stessi chiedendo; càpita anche questo!).

Una parte per me molto importante della componente verbale della punizione sono le cosiddette “formule”, iniziale e finale. Non già alla prima sessione, ma appena possibile, pretendo che l’allievo le impari a memoria. Una formula iniziale – cioè appena si è posizionato e attende il primo colpo – suona come: “Sono consapevole delle mie colpe e di meritare la frusta”. Una formula finale può essere del tipo: “La ringrazio per avermi battuto con la severità necessaria a emendarmi dalle mie gravi colpe”.
Alla fine, l’allievo deve baciare la sferza. Ad alcuni la faccio baciare anche all’inizio, e durante. Questo dipende dal grado di sottomissione naturale del corrigendo e dalla sua capacità di immedesimazione nel ruolo: con alcuni risulterebbe ridicolo, perché “non ci credono”, mentre ad altri appare come un’ulteriore e appropriata umiliazione.

Alla fine della battitura faccio mettere l’allievo in cornertime, ma questa volta senz’altro in ginocchio e col culo ben spinto in fuori, in modo da poter (io) commentare gli effetti del mio lavoro. Il secondo cornertime dev’essere breve, mai più della durata di una sigaretta che mi fumo comodamente seduto, mentre il segaiolo sa che lo sto osservando. La brevità è dovuta al fatto che il climax è ormai passato, e quasi tutti gli allievi cominciano a sentirsi a disagio. Quindi il mio successivo ordine “Vestiti e vattene” è veloce.
Non è questo il momento di trarre conclusioni e aprire dibattiti sulla sessione appena terminata. Ciò potrà avvenire con più calma, il giorno dopo, via mail. Credo sia opportuno lasciare ciascuno con sé stesso, dopo un’esperienza del genere, e quindi lo licenzio rapidamente. Accetto gli eventuali saluti (“Arrivederci, Signore”) ma non rispondo, al massimo faccio un cenno di congedo con la testa o con la mano.

A volte però capita che l’allievo abbia già deciso che l’esperienza delle mie sessioni non fa per lui. In questo caso sono dispostissimo a chiarire i suoi dubbi, anche rassicurarlo sul fatto che nulla di grave è successo. Questo genere di allievi “one-shot”, quando manifesta un volontario e immediato distacco dalla situazione e dal ruolo, transita immediatamente nella categoria dei miei pari (cioè di ogni altro essere umano), che ha pieno titolo di parlarmi sullo stesso piano di diritto. Poiché probabilmente l’esperienza è molto più scioccante per lui che per me, è giusto lo aiuti a ritrovare una prospettiva di normalità. Per tutti gli altri, invece, quelli che torneranno, il distacco di ruolo va mantenuto, e non dev’essere rovinato da un improvviso eccesso di familiarità.

A conclusione delle tre puntate sui rituali, voglio sottolineare due cose.
La prima è che i rituali a me piacciono molto, e quanto agli allievi li aiutano a trovare un “percorso logico” entro il quale la sessione si snoda. Ciò è d’ausilio all’allievo soprattutto a partire dalle sessioni successive alla prima.
La seconda è che il rituale è un utile riferimento, ma non deve diventare un copione rigido. Già
ab initio gli allievi sono diversi l’uno dall’altro, per gusti, preferenze, inclinazioni, fantasie. Anche se il piatto si chiama sempre spaghetti, lo posso condire in vari modi. In secondo luogo, le diversità iniziali tra allievi si esaltano nella situazione concreta, reale. Sensibilità di giudizio e flessibilità d’azione sono – per un educatore – fondamentali.
I rituali lo aiutano a orientarsi e a porre l’accento su quel che ritiene importante, utile, soddisfacente, ma non devono essere una prigione. Anche se ho idee ben chiare, posso tranquillamente dire di non aver mai svolto due sessioni uguali.

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