Pornology New York by Michele Capozzi

Da sx: Porche Lynn, Ava Taurel, Michele Capozzi, Candida Royalle

Mercoledì 7 febbraio alle 23, Michele Capozzi presenta il suo docu-cult “Pornology New York“ al CSOA Cox 18 & Calusca City Lights, via Conchetta 18, Milano.
La proiezione, cui sarà presente l’autore e che dura 85 minuti, è privata ed è necessario mail con nominativo o nick a michelecapozzi@hotmail.com per essere inseriti nella lista degli invitati.
Il film è stato già presentato in alcune città in cinema d’essai. La prima si svolse a Genova ed in quella occasione il pubblico mostrò di apprezzare molto la chiarezza del messaggio sociale e politico che si intreccia con la vicenda personale del personaggio “Capozzi”
Riporto qui sotto la recensione di Alex DonadioE’ alquanto bizzarro come le associazioni di idee, stimolate da qualche immagine, si raccolgano tra loro e portino lontano, forse anche nella dimensione dei sogni.
Ho avuto il privilegio di poter vedere giusto ieri una visione privata, e quindi privilegiata, del film “Pornology New York” di Michele Capozzi. Presente l’autore, in casa di un amico disponibile ad offrire un piccolo televisore domestico e un DVD portatile. Già l’inizio è un dato: sotto l’’immagine della bandiera statunitense uno scroll recita, appellandosi al Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, un avviso della “Adult Video Association” sulla libertà di espressione. E’ una citazione. Capozzi la incolla all’inizio del film senza manipolazione alcuna; data 1987. Le immagini sono un poco velate dal tempo, la realtà è sicuramente quella di aver duplicato una copia e non aver usufruito del master, ma questo dettaglio, e non solo, offre la possibilità al mio inconscio di innescare libere associazioni di idee. Mi viene in memoria il dimenticato “Fragole e sangue” di Stuart Hagmann – in originale “The Strawberry Statement” – del 1970. In apparenza non vi è alcun nesso logico, viste le immagini, che giustifichi il rimando, ma pensandoci bene quel sogno collettivo, le grida, il desiderio di libertà che proveniva dagli studenti del “campus” entrano tutti nell’incipit del film di Capozzi, che, citando, denuncia la collocazione censoria degli USA. Pochi minuti trascorsi e le immagini guadagnano lo schermo, forzano lo spazio e ti catturano con la loro forza eversiva che, quando è tale, non conosce limiti spaziali o di misure in pollici televisivi. I 90 minuti, questo è il minutaggio del film, sono trascorsi velocemente, e in questo tempo ho visto non un solo film ma molti film insieme; ogni inquadratura ne rimandava ad un’altra, di altri registi, attori, personaggi, di altri film ma di identiche situazioni legate all’essere indipendenti. L’atmosfera che si respira è quella dei film usciti dalla Factory di Andy Warhol, con quel senso di libertà estrema che ancora è rivoluzionaria.
A volte la nostalgia prende la mano per quegli anni che hanno cambiato il mondo, per quelle conquiste ora vissute dalle nuove generazioni come norma, per la sperimentazione che allora era desiderio di libertà, per una generazione che ha perso ma che nel perdere, e nel suo perdersi, ha permesso alle generazioni a seguire, di acquisire, di fatto, privilegi, fondamentali o di lievi entità, ma impensabili prima.
La definizione e lo stile è quello del “documento” – cosa ben diversa dal documentario – con un fermo impianto stilistico, e visionario, americano. Non potrebbe essere più americano di com’ è, e non solo perché i “testimoni” – perché di questo si tratta, non di attori – sono americani, parlano americano, vivono e si vestono americano, anche se mangiano italiano – ma con Michele Capozzi in cucina non potrebbe essere altrimenti -, non perché i luoghi, costituiti spesso da locali underground, siano typicals, non perché gli esterni ci riportano a paesaggi consumati – e in questo documento, critici – da film dell’american way of life, ma perché molte riprese potrebbero benissimo essere tratte da scene non montate di film di Warhol, Gerard Malanga, o anche dell’ ”indipendente” John Cassavetes. Chi avrà il privilegio di visionare questo film si ponga con estrema disponibilità a ricevere storie e immagini contaminate di vita americana. Solo con questa lettura otterrà stimoli per entrare in sintonia con un mondo purtroppo in via d’estinzione. Capisco l’afflato di Michele a raccontare delle “grandezze” vissute nella naturalezza del quotidiano.
La scena filmata dalla finestra, dove vediamo una bella ragazza che si distende nuda sul cofano di una macchina della polizia parcheggiata in strada, potrebbe essere assolutamente “strappata” alle inquadrature di Warhol, ripresa dalle finestre della Factory. Bellissimo il seguito, quando la ragazza, finita la sua performance, scende dal cofano della macchina, cammina tranquilla ed esce di campo mentre entrano nella ripresa i due poliziotti che si mettono in macchina, e un passante, che prima si è goduto la scena, si avvicina e gliela, spiega, vediamo dai gesti con quale attenzione e sicuramente dovizia di particolari, ai poliziotti increduli quello che è stato durante la loro assenza. Tutto è ripreso in campo lungo con macchina fissa. Che meraviglia, non c’è bisogno di inquadrature complicate, di montaggi alternati per fare del bel cinema. E che dire della scopata di Neville Chambers vista tutta solo negli occhi di lui, ma che occhi… Rimaniamo sconcertati di fronte ad una seria, bellissima nella sua maturità, Porsche Lynn che ci racconta con identica naturalezza – quella che prende il respiro dalla consapevolezza – dell’importanza del conoscere il proprio corpo per sapersi dare il piacere e quindi poterlo trasferire agli altri e del suo dramma personale di un tumore acquisito, e poi risolto con tecniche alternative. Da allora la Lynn divide il suo tempo tra la dominazione e l’assistenza – ma c’è differenza? – al suo guru alternativo. Rivelatrice la frase, vado a memoria: “Noi non vi curiamo, vi aiutiamo a darvi lo spazio per curarvi da soli”. Certo, nel film si vedono azioni e masturbazioni ma non sono mai, neanche una volta, riprese in modo gratuito, sono sempre immagini che raccontano. Capozzi, che nella vita scrive, nel film si serve di immagini, e di volta in volta le sceglie, le cambia, come lo scrittore seleziona le parole a costruire le frasi per raccontare azioni o pensieri. E di pensieri ce ne sono parecchi in questa rivisitazione dei passati anni ’70 newyorkesi.
Gli attori, nel termine che identifica coloro che fanno atti o azioni, non recitazione, sono straordinari nel raccontare, rievocare momenti passati come se fossero vissuti in tempo reale. Non si sta nemmeno a notare i “ricordi”, la differenza tra i muscolosi e indolenti boys che girovagavano nella Factory e questi signori ormai avanti con gli anni, chi smagrito, chi ingrassato, parlare di incontri avuti o inscenare delle performances sessuali, raccontare di cose straordinarie nella loro quotidianità, nella loro dimensione d’abitudine ad essere perennemente pronti ad accettare l’insolito e l’avventuroso come norma, come assoluta “possibilità” di intervento nel quotidiano. E questo comporta, e testimonia, un alto grado di libertà. Immediato è il rimando a grandi concerti rock – sono già passati parecchi anni da Live Aid ma ricordiamo – dove le stars di ieri, smagriti o sovrappeso, calvi o con i lunghi capelli radi che alle prime note suonate sul palco “rubano la scena” a qualsiasi Madonna contemporanea. Il sound è ancora loro, continua ad essere loro; anni di metal, hard, house, rap o noise non sono riusciti a levarglielo. Ecco la meraviglia. E’ questa la conquista sedimentata di questa generazione.
Il film chiude con un’immagine notturna dell’ Empire State Building. E’ quasi irreale nel suo iperrealismo spettacolare. Un fulmine ne colpisce la punta disegnando un segno grafico netto e veloce nel nero del cielo. Da quel cielo non c’è alcuna speranza. La sommità è illuminata come quando a teatro si alzano le luci al massimo e la luce “frigge” di un biancore accecante. Le Torri Gemelle non ci sono più ma l’Empire, quell’Empire che Andy Warhol aveva filmato, a inquadratura fissa, dall’alba al tramonto, alla notte, è sempre lì, vero simbolo incontaminato di NY. La scena si illumina di poesia – macchina fissa, le riprese sono da una distanza non disturbante – : da una porta che apre su un tetto piano di un piccolo e modesto, vecchio stabile di faccia all’Empire, due amici escono per pisciare all’aria aperta. L’ultimo atto del film è un atto di amicizia complice, è un atto di libertà. E’ notte e la “grande mela” respira.

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